11 gennaio 2010

Italiani brava gente...

Non scriverò nulla, mi limito a copiare-incollare due articoli presi da 'Il Fatto Quotidiano'.



Braccia nei campi, nulla fuori. Dove il sogno del lavoro è incubo

di Mimmo Calopresti

Rosarno, uno svincolo della ormai inutile ed impercorribile Salerno-Reggio Calabria, il pezzo di autostrada che mai nessun governo è riuscito a terminare e che rende la parte bassa della Calabria il luogo più lontano dal resto dell’Italia. Non mi viene in mente un altro modo di definire quel luogo. Un nome che sfugge dallo sguardo subito dopo averlo messo a fuoco, mentre stai andando da qualunque altra parte.

È un non luogo: da quello svincolo o ci si addentra nella Piana di Gioia Tauro, fino ad arrivare al porto, o si imbocca la superstrada che porta all’altra costa, venti minuti per passare dal mar Tirreno al mar Jonio, e in mezzo il nulla. In quella parte della Calabria non c’è che il nulla e, in più, d’inverno fa freddo, niente a che vedere con l’immaginario classico del sud: sole, mare e tutto il resto.

Nella Piana gli agrumeti e gli uliveti fanno da padroni. La raccolta, prima dei mandarini e poi delle arance, è un lavoro duro, ma è ancora un buon modo di fare soldi. Chi ha ereditato un pezzo di terra dai genitori ha evitato quell’emigrazione di massa che ha coinvolto i più e ora ha qualcosa di cui occuparsi. I più capaci hanno sviluppato un sistema semi industriale per riuscire a sviluppare la commercializzazione del loro prodotto, gli altri debbono accontentarsi, usando manodopera a basso costo, di rivendere il raccolto sul territorio.

Lavoro duro e malpagato che nessuno vuol più fare. Eppure qualcuno che ancora può fare quel lavoro c’è: sono gli stranieri, gli immigrati, quelli dalla pelle scura (ma più scura di quella dei ragazzotti del luogo), i neri, i negri.

Proprio i negri, quelli che arrivano dall’Africa nera, quelli che non hanno niente, che non hanno ancora capito se sono arrivati in Italia oppure chissà dove, che si illudono di essere lì solo di passaggio, prima di approdare nei luoghi della ricchezza e delle comodità.

I negri che si accontentano di vivere come bestie. Quelli che, d’altronde, ci sono abituati, quelli che si fanno la capanna con il cartone nei casolari abbandonati o, peggio, per paura di essere derubati dormono tutti insieme, per terra, in una fabbrica abbandonata e data al fuoco qualche anno fa.

Gli unici rapporti sono quelli con un parroco di buona volontà. Gli unici luoghi di contatto con il resto del mondo: i supermercati, dove comprare il minimo indispensabile per sopravvivere. Lì c’è l’incontro, lì c’è lo scambio. Ma non ti venga in mente di rivolgere qualche parola di più alla cassiera, altrimenti scoppia il casino: se fino a quel punto, in quel mare di desolazione, i ragazzi del luogo ti avevano solo preso in giro e quando ti incontravano in paese ti scansavano perché i negri puzzano, a quel punto fanno il salto di qualità e ti sparano.

Per carità niente colpi di lupara, basta un fucile ad aria compressa ed eccoti umiliato, non si parla e non si scherza con la donna bianca. Allora non sopporti più, ti sembra troppo, hai voglia di alzare la testa, di dirlo in faccia a quei quattro ragazzotti che tu hai gia abbastanza cazzi per riuscire a sopportare quella vita di merda, che quando ti svegli al mattino non riesci a lavarti perché l’acqua è gelida, che durante il giorno, mentre lavori, hai le mani e i piedi rattrappiti dal freddo e, quando hai finito di lavorare, non c’è niente intorno a te che ti renda la vita sopportabile tranne un improvvisato fuoco intorno a cui passare la serata.

Non hai più la forza di pensare e sognare una vita migliore di questa, sei solo incazzato con te stesso per esserti infilato, senza sapere come, in un inferno senza vie d’uscita. Il casino, a quel punto, sei tu a cominciarlo, perché – come diceva Fabrizio De Andrè – chi non terrorizza si ammala di terrore. Cerchi di farti sentire. Vuoi far sapere a tutti che non sei più disponibile a fare quella vita; che, anche se hai accettato un lavoro da schiavo, se non sai che cos’è un contratto di lavoro, se non sai che esiste il sindacato, se non pretendi di essere tutelato da uno Stato di diritto che in una parte del suo territorio accetta che esista la schiavitù, hai comunque una dignità e una vita da difendere.

Vuoi affermare che non puoi essere scambiato per un tiro a segno, che la tua carne brucia non solo per il freddo che accumuli durante le troppe ore di lavoro, ma perché da troppo tempo il tuo cuore non riesce ad essere riscaldato dai suoni, dagli odori e dagli affetti della tua terra e quindi pompa in circolo solo sangue avvelenato. Rosarno brucia. Il resto dell’Italia è lontana, irraggiungibile.


Da Il Fatto Quotidiano del 9 gennaio






Dopo la caccia all’uomo, centinaia di immigrati trasferiti dalla città. E i caporali si riorganizzano



Il terrore lo leggi negli occhi di quelle due "prede" che cercano disperatamente di nascondersi. Spuntano sulle facce di due "negri" accovacciati dietro una volante della polizia che li ha "salvati" mentre vagavano per le campagne.

L'auto è ferma. Davanti, a pochi metri, ci sono le barricate dei bianchi. I "bravi ragazzi" di Rosarno, i vecchi, le donne che davanti alle tv recitano l'esasperazione. Urlano e le loro parole si sentono anche dentro l'auto. "Unn'è, unnu cazzu è sta mafia? I negri se ne devono andare, basta... E basta pure con questi giornali di merda che ci chiamano razzisti". Applausi, grida. E la paura dei poliziotti. "Qui ci linciano" sussurra uno di loro. Scende dalla macchina col manganello in mano per farsi spazio, il suo collega inverte la marcia. I ragazzi neri seduti dietro sono ormai sprofondati sotto i sedili.

La volante sfreccia e va via. Hanno paura i disperati di Rosarno, gli schiavi delle arance che hanno trasformato la loro ribellione in una violenza cieca che ora i bianchi esibiscono per giustificare tutto: barricate, gambizzazioni, caccia al nero topaia per topaia, casolare per casolare.

"Non è più come una volta, ve ne dovete andare che qui vi ammazzano". Davanti alla fabbrica dell'ex Opera Sila, monumento ai mille fallimenti della storia industriale della Calabria don Pino De Masi, prete e animatore di Libera, cerca di convincere i "negri" a salvarsi. Ci sono i pullman della prefettura che aspettano. Li porteranno a Bari, a Crotone, in Sicilia. Dovunque ma lontano dalla città nemica.

"Prete io non posso andare via, il mio padrone mi deve dare ancora i soldi". La paga dello sfruttamento, quei 20 euro al giorno che gli schiavi delle arance percepivano per raccogliere gli agrumi della Piana. Il prete è come un naufrago in mezzo al mare in tempesta, si fa dire il nome del "padrone", si attacca al cellulare e chiama. Rispondono in pochi. I negri vanno via, e se si può risparmiare anche quei quattro centesimi di salario va bene così.

Qualcuno non se la sente di venire davanti al ghetto, troppa polizia, troppe telecamere. E allora don Pino si incarica di raccogliere lui il salario della vergogna. Va avanti e indietro, poi torna e distribuisce quella miseria.Hassan, giovane rifugiato politico del Darfur: "Il mio padrone si chiama Rocco, deve darmi 600 euro, ho il numero, lo chiamo". Il cellulare squilla a vuoto. Hassan ha gli occhi gonfi di lacrime e le tasche vuote. Raccoglie i suoi stracci in un sacchetto nero della monnezza e sale sul pullman. La rabbia gli devasta il cuore, ma meglio l'umiliazione della miseria che finire sprangati. O impallinati dalle ronde. A uno dei ragazzi feriti all'alba del giovedì della vergogna hanno devastato l'inguine con cinquanta pallini da caccia.

A San Ferdinando hanno tentato di dar fuoco a un casolare isolato abitato dagli schiavi. "Sono arrivati con due macchine. Alcuni bianchi sono scesi con le taniche di benzina, altri avevano le spranghe in mano". Sul posto ci sono i vigili del fuoco e Laura Boldrini, dell' Unhcr. "Ormai è caccia all'uomo, come si fa a controllare tutti i casolari sparsi?". Chi può va via anche in macchina. Carrette sgangherate con targhe russe o ucraine. "Sono i caporali", dice a mezza voce uno dei migranti.



"A loro davo cinque euro al giorno per farmi portare in campagna". Sono vestiti meglio degli altri, hanno in tasca un paio di cellulari. Non si fanno inquadrare dalle telecamere. Sono l'élite della disperazione. Pasquale, invece, è uno dei "padroni". Si fa coraggio e viene a consegnare i soldi che deve. "Ma quale sfruttamento? Li pagavamo a cassetta. Più raccoglievano e più guadagnavano. I mandarini li pagano 20 centesimi al chilo. Come faccio a dare 40 euro al giorno a un bracciante regolare?".

Ci sono le telecamere e il signor Pasquale abbraccia una coppia di neri. Padrone e schiavi. Come fratelli. Vanno via i neri di Rosarno, i clandestini e quelli che in tasca hanno un permesso di soggiorno o lo  status di rifugiato. "Molti di loro", spiega un volontario, "vengono dal nord, prima della crisi lavoravano in fabbrica, poi sono stati respinti all'inferno". E sono diventati braccianti agricoli, pronti a sostituire i bianchi. Non perché a Rosarno e nella Piana non esistano braccianti bianchi, ci sono, molti lavorano la terra, altri (1.500 almeno) sono "fittizi": hanno tutte le carte in regola per prendere i sussidi dell'Inps, disoccupazione compresa, ma la campagna non la vedono mai. I più giovani aspettano. E ora sono a fare i blocchi.



Vanno via i negri che non sanno di sud e della sua particolare economia fatta di ricchezza e miseria, di eccellenza e arte di arrangiarsi, di lavoro vero e di assistenza, di sfruttamento e anche di solidarietà. E che consente di guadagnare sulle arance anche quando si lasciano a marcire sulle piante.

È storia di due anni fa, quando scoppiò lo scandalo dei contributi dell'Unione europea per il ritiro della produzione degli agrumi in esubero. Un  business da 45 milioni di euro. La centrale operativa del grande imbroglio era Rosarno, qui c'erano aziende che più che staccare arance dalle piante producevano fatture. False. Gli "onesti" agricoltori della Piana lucravano sulla sovrapproduzione e sulla trasformazione degli agrumi in eccesso in succhi da esportare. In Francia e Spagna.



"Ma ci siamo resi conto – ricorda Elizabeth Sperber, funzionaria dell' Olaf, l'ufficio antifrodi della Ue – che le aziende straniere nominate per ottenere i fondi o non esistevano o non avevano mai visto una arancia trasformata". Un meccanismo oliato. Imprenditori, funzionari pubblici, politici della Margherita e di Forza Italia: questo il teatrino dell'imbroglio. Vanno via i disperati dell'ex Opera Sila. Rosarno addio. Addio alla sua brava gente che non lascia i blocchi e le barricate. "Perché noi non siamo razzisti, ma i negri se ne devono andare".



Da Il Fatto Quotidiano del 10 gennaio




Infine aggiungo un link, giusto per schierarmi un po'.




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